sabato 31 dicembre 2022

L' anno in cui tutti lessero Sally Rooney

Ho scelto, in questo mio anno bianco, un libro pieno di corpi e di sesso.

C’è una citazione di Calvino, probabilmente la mia preferita di sempre: Abbiamo tutti una ferita per riscattare la quale combattiamo. Ecco qua il mondo delle relazioni dopo i trent’anni: post pandemia e post Tinder, anche.

 Siamo tutti il secondo giro di qualcuno.  Abbiamo già vissuto tutte le prime volte; abbiamo mangiato pizze nel cartone su pavimenti di salotti ancora senza tavoli, e verniciato muri e montato mobili Ikea.

Che è poi il mondo della Sally, con i suoi personaggi deficienti – nel senso letterale del termine, perché hanno perso o mancano sempre di qualcosa.

[Nei giorni in cui stavo leggendo il libro - ero ad Anafi, nuotavo nuda, facevo trekking sulle montagne - ho ricevuto, inattesa, una mail che mi diceva proprio questo:

“Giulia mi manchi”

“Mancarsi, con te, è sempre stato un verbo di traiettorie, non di malinconie” – ho risposto io].

Traiettorie, non malinconie.

Fare pace con gli sbandamenti e le incertezze – casuali, dadaiste, bellissime.

Fare pace con la libertà, potentissima, di dire cosa voglio e che cosa no.

A me, ad esempio, fa rabbrividire una certa narrativa rassicurante della coppia che fa incetta di detersivi con la Fidaty Esselunga la domenica. La mia amica Miri mi ha descritto spesso certe pellicole sperimentali: voglio montare la pellicola al contrario e vedere che cosa succede nell’extra ordinario, nel margine di scarto del là dove (là come) non avremmo mai pensato.

C’è stata una domenica – la prima di dicembre – in cui ho mangiato un gelato. C’era un sole pallidissimo, faceva già freddo, e io ero seduta su una panchina, con il cappello di lana, il maglione pesante e un cono al pistacchio e cioccolato fondente.  Leccare un gelato – in qualche modo ingannare l’inverno, mentre tutto intorno lo è già, inverno.

Facciamo quello che vogliamo.

Come l’arte Gutai: il gesto sublime di lanciare la bottiglia delle storie senza sapere precisamente dove e come vanno a finire, il balzo di Murakami attraverso la carta da pacchi senza che conti né il prima né il dopo: importa il balzo stesso, la sollecitazione della materia che comincia  a raccontare la sua storia.

Saltare dentro il foglio, strappare i cieli di carta. Che sia questa – pensavo – l’ultima stanza illuminata?  

Non un luogo, ma un atto. Un atto di imprevista, sublime, insensata bellezza.

Allora dovresti venire, disse lei.



venerdì 12 agosto 2022

#PianoA - ANAFI

36°22′N 25°47′E

Approdi – l’attesa è finita.

Abbagliami | abbracciami.

A rincorrere il vento – ripararsi nel silenzio.

Albe che accarezzano cicatrici: Addio alle armi

All’ultima stanza illuminata, Abbandonare tutto.

Agosto –  i giorni sospesi.

Amiche di sublimi improvvisazioni, fiabe armene nel meltemi che soffia

Argonauti, questo siamo. Affacciati.

Asciugamano, come almanacco dei giorni.

Armature cadono, confini.

Aedi, giù al porto, cantano storie.

Atlante delle isole remote. Azoto e idrogeno e ossigeno. E la luce e i vuoti e i silenzi - raccontami.

domenica 5 dicembre 2021

Vitamina P.


Se è vero – come ripete sempre
 il mio amico Gio - che i libri ci trovano. 

E’ stato un autunno difficile, a tratti ostile. Ho trovato libri bellissimi, che – lo dice bene Concita De Gregorio nel suo ultimo editoriale su D di repubblica –  ci pensano a parlarci da amici, a riconnetterci con il noi dentro di noi:  «Come stai, come ti senti. Chi ti senti, se riesci a dirlo».

Un autunno tremendo, dicevamo. e quasi alla fine, in una domenica di pioggia e capelli crespi mi ha trovato un racconto di Irene Soave su l’Integrale che è, semplicemente, IL pezzo che vorrei aver scritto io.

Perché è stato come un carotaggio, un preciso bisturi d’anima - Storie come domande, parole come risposte:  specchi all’incroci che  illuminano i nostri coni d’ombra.

Ho scritto (link) di una  solitudine in un certo senso pura e militante:  addomesticare i vuoti ma anche  rifugiarcisi dentro.

“A volte vivi come un monaco guerriero” – sempre il mio amico Gio  [mentre passano  gli anni, passano le città, passano troppi Campari; mangiamo sempre allo stesso tavolino di Roscioli, ci abbracciamo con la cintura di sicurezza  e calibratissime distanze all’ingresso di qualche metropolitana].

Ti terrorizza il caos”.

Ecco, il pezzo della Soave è l’esatto ribaltamento – un’ammissione, la riconciliazione, l’assoluzione.     Come passare la mano sul contropelo ruvido dell’esistenza:  la sua protagonista potrei essere io – lo so, ma non lo so dire.

Che non ho il light charger ma metto la sveglia alle 06.15 per uscire  a correre o fare i burpees o caricare 90 kg di leg press la runner’s high,  la botta di endofine finché fuori è ancora buio,  e quando torno a casa  c’è già la luce (è già un giorno nuovo) e a volte mi addormento con le pile di libri e gli occhiali di fianco / e che ho anche io le mie botte di solitudine e di malinconia certe domenica mattina quando non mi giro verso l’altro lato del letto /e soffio sul the bollente mentre mi vesto e mi scaglio fuori casa – colleziono ciotole scompagnate / non saprei dove apparecchiare per due.

La riconciliazione: con quello che siamo, con quello che siamo stati: un giorno, dal nulla, aprii sotto casa a Pavia il negozio di un anziano panettiere greco – o forse albanese, non ricordo, chissà. Anche allora mi allenavo prestissimo la mattina per essere alle 7 a sollevar pesi con il mio personal Alberto:  quando tornavo la strada era invasa del profumo del panettiere che sfornava certi abnormi saccottini al cioccolato, soffici e sempre un po’ bruciaticci. Ne compravo uno come colazione per il mio compagno – io che ero a dieta rigidissima e mangiavo 25g di fiocchi d’avena pesati, niente pane, figuriamoci discutibile viennoiserie.  Mi sembrava  che la mia vita rientrasse tutta lì: nel tiepido nitore del sacchetto antiunto che mi aveva consegnato il vecchio greco (o forse albanese),  nei gradini fatti a due a due  - un po’ stretching un po’ impazienza di entrare nel nostro fazzoletto di monolocale urlando “sveeeglia”.

(Non torno a Pavia da anni, chissà se c’è ancora il panettiere, chissà  se l’abbiano mai segnalato all’Ufficio d’Igiene per l’incauto maneggiamento ad un tempo solo di pane e monete).

La riconciliazione: con quello che abbiamo provato ad essere e non siamo stati capaci. A Milano non  c’era il panettiere sotto casa e neanche Alberto a segnarmi i massimali sul quadernetto -  si faceva il brunch  il weekend, da Cascina Cuccagna, facevo finta d’impormi d’andare ai corsi serali della Get Fit di via Piacenza.

L’ammissione: – lo dice bene, ancora, la Soave – volevi fare una rivoluzione.  Far brillare, una mattina di tarda primavera, quella vita lì, quella che tutti mi sconsigliavano di.

La rivoluzione. (Non mi sarei più ricordata del panettiere greco, del conteggio dei pugni per il risotto, come si sale dietro in Vespa).

L’assoluzione – una lunghissima assoluzione, come il pilota automatico, come un’apnea, come una penombra grigia.  Tempo  mitemente infelice, e tu sei ingrassata.

 “Vivi come un monaco guerriero”

Fino alla luce dolce dei Fori – era l’estate 2020 (la più attesa di tutte le estati), era un tramonto lunghissimo di fine luglio, l’Iphone segnava 27k passi felici,  camminavamo senza mascherina, sembrava che il lockdown fosse per sempre finito e  invece sarebbe tornato l’autunno: ed era appena passato il mio compleanno, un sabato mattina su uno degli ultimissimi treni partiti da Torino per Milano – si chiudevano le Regioni, chiudevo capitoli – tiravano come  punti di sutura. Puoi ancora provare dolore.

Potere, ancora che sono poi le parole del secondo libro che mi ha trovato: Le mille luci di New York:  nella prosa del suo protagonista, indolente e cocainomane  - l’ho detestato  per 150 pagine, ma poi sbabam arriva questo finale implacabile e dolorosissimo – arrivano le parole. 

Il libri ci trovano e ci lasciano  - letteralmente  - briciole di Pollicino che ricongiungono le cose.

L’Integrale è una rivista sul pane.

Il monologo finale di Mille Luci è in una panetteria.

«Il profumo del pane fresco ti avvolge tutto  […] Dovrai cercare di andare piano. Dovrai imparare tutto daccapo».

Le nostre vite sono come lo yo-yo di quando eravamo bambini: ti butti a capofitto, l’elastico ti ributta su. 

Daccapo.   

C’era un anziano panettiere greco – o forse albanese, non ricordo, chissà.

C’è stato il secondo lockdown, passato tutto a Milano.  Il mondo saltava per aria  tutt’intorno e io, per la prima volta, potevo andare piano.  Potevo imparare.

Daccapo.

 Ho ricominciato a correre.

Ho rifatto un burpee.  Poi due, poi dieci.  (Che poi anche il burpee è un ritorno, ti butti giù e confidi nella forza  elastica dei muscoli per risaltare su, in piedi).

«10mila lux sulle zone fotosensibili del cervello, per fargli rilasciare noradrelina, dopamina, serotonina».

Una mattina ho comprato il pane. Mio, per me, per la prima volta in quattro anni che vivo a Milano e chissà cosa ha pensato la commessa, mentre tiravo fuori le banconote stropicciate dalle tasche della giacca a vento.

Il pane è sempre stato il cibo della vita con i miei  genitori: quello di mia madre (orgogliosa e secchiona lievitomadrista di lunga data ben prima dell’era Covid), le pagnotte di segale del nostro forno preferito, a mezza montagna; i bocconcini al latte dei pranzi a casa della nonna –  meravigliosa sovversiva con i manuali di Marco Bianchi allineati sulla libreria mentre  friggeva due volte le cotolette nel burro.

Compravo il pane, correvo, leggevo.

E’ sull’orlo del precipizio che l’equilibrio è massimo – anonimo murales all’incrocio di via Caracciolo, punto fisso di quelle mie primissime corse.

«Seduto anche in vita precaria, col sedere sull’orlo. Sempre così – vita provvisoria»:  New York, 8 novembre 1993, scrive Saul Steinberg ad Aldo Buzzi. L’Adelphi delle Lettere (ancora zeppo di post-it e vecchi appunti universitari) è stato il terzo libro di quest’autunno, in contemporanea con le Mille Luci.

Apparentemente, non ci potrebbero essere due mondi più distanti, la New York andata oltre su una cometa di polvere bianca di McInerney  e  il Saul già anziano – che  programma i suoi lasciti

«[…] Lascerò le mie carte al Smithsonian o Yale, dove una bibliotecaria, ora bambina, troverà le parole che non trovo»  dove in quel minuscolo inciso, in quella bibliotecaria ora bambina c’è tutta la sua malinconia – o balcanica  - avrebbe detto – scaramanzia.

Tra tutti i cibi menzionati nelle Lettere, il pane ha rarissime occorrenze, e sono quelle della memoria, della nostalgia. Il daccapo, agli anni del Grillo:

«Nel 1933 – 60 anni fa – gustavo già  i piaceri della solitudine e della povertà: invece di Stilton, la Gorgonzola. Mezz’etto di Gorgonzola con un etto di burro e quei ottimi panini di via Ampere».

O ancora più indietro,  alla merenda da bambino: «Feta […] pane whole wheat  [integrale] fresco, e olive nere secche. Questa era la mia merenda da bambino».  

Dal principio, dal pane,  dal mangiare e leccare con gesti primordiali ed istintivi in un cortocircuito scambievole umanità-feralità da «quando ero un bambino di cinque anni i cani mi leccavano il viso e mi guardavano negli occhi» alla Milano dove sono i ragazzi che mangiano il burro dalla carta come i gatti: ed è la stessa regressione che riporta al finale della Soave, le scale salite come cuccioli che si fanno le feste.

Mischiare i verbi, mischiare i gesti, ossitocina e adrenalina,  annusare il pane, mangiare il burro. Un’ammissione, la riconciliazione, l’assoluzione –  la liberazione: che esiste, che lo siamo,  caos.

Daccapo, sull’orlo delle nostre vite precarie – confondere  cicatrici e suture.

(E poi, come cuccioli,  leccare il viso di carezze).


BIBLIOGRAFIA

Irene Sove, Un'occasionale aurora boreale, in Integrale. Erotica (IV), 2021

Jay McInerney, Le mille luci di New York, 2016 Bompiani

Saul Steinberg, Lettere a Aldo Buzzi 1945-1999, a cura del destinatario, 2002 Adelphi

 

 


lunedì 4 ottobre 2021

I-sola


Ho riletto, nelle scorse settimane, un mio pezzo di  tre anni fa  sullo stare da soli.
Mancava poco al mio trentesimo compleanno, come oggi conto una manciata di giorni al fatidico dica- trentatrè, che coinciderà anche con uno degli eventi più impegnativi della mia carriera lavorativa.


Allora avevo scritto di una solitudine cosi  nuova e cristallina, - in un certo senso intonsa, la stanza vuota solo per me e il Bonsai Mario, le pareti bianche dopo il mio muro azzurro pantone firmato.
A rileggerlo ora direi la stessa spavalderia di quando mi è caduto un disco da 20 kg dritto sul piede  e  ho continuato ad allenarmi imperterrita “tanto non è niente è la botta”. E poi sono andata in ufficio in bicicletta, e poi una manciata di ore dopo in ufficio ci piangevo, chiusa nel bagno con il piede dentro la borsa del ghiaccio  sintetico.  Ecco, alla Giulia baldanzosa quasi trentenne direi che sì, non è tanto la botta quanto  la frantumante onda d’urto dei bilanci, delle stanchezze, delle nostalgie. 

Lo stare da soli di cui posso scrivere ora è  più sedimentato, più vissuto, più zozzo – sangue e terra, come gli altri.


Sono stata da sola a un matrimonio,  dove tutti gli invitati erano coppie e/o famiglie: il mondo overtrentenne perfettamente divisibile per due – gli uomini che all’open bar ordinano due cocktail,  le donne con le giacche dei compagni sulle spalle, le scarpe di ricambio in macchina insieme ai passeggini pieghevoli;  quelli già sposati, quelli che-si-devono-sposare,  quelle che si piazzano in prima fila al lancio del bouqet, la pastasciuttina al pomodoro del menu bambini, su tutto il noi come pronome personale dominante.

Sono stata  da sola in un resort cinque stelle immerso nella campagna siciliana,  con  il voucher per il massaggio di coppia e il maître al quale, al momento di ordinare qualsiasi pasto ho dovuto ripetere con garbo che “sì, tolga pure l’altro coperto”.

Sono stata da sola su un’isola – avevo affittato un appartamento distante sessantadue passi dal mare, c’erano le barche in secca sull’uscio – e  la padrona di casa mica si fidava che non ci fosse nessuno con me, e quando le ho restituito le chiavi ha fatto un giro un po’ sospettoso  lasciandosi sfuggire  a mezza bocca un “allora è vero”.

Sono stata  da sola su un’altra isola, per la prima notte delle mie improvvisatissime vacanze:  ho dormito su un vecchio terrazzo, nel sacco a pelo. Arrivavo  stremata da un luglio pesante come un macigno e da una serie di notti insonni consecutive, volevo solo silenzio e il cielo stellato di una manciata di strade senza corrente elettrica.  Nel cuore della notte si è alzato il meltemi ed è accaduto l’inaccadibile: ha iniziato a piovere. Il 10 di agosto, a Skinoussa, dove non vedevano la pioggia da otto mesi. Ero rannicchiata nel mio sacco a pelo blu,  sul materasso pieno di polvere e di salsedine,  con il vento sferzante e la pioggerellina tutto intorno e quello  starmene li,  quel ripararmi era la catarsi,  il più esatto correlativo oggettivo  alla domanda. Come vivi ora.


A volte, a Milano, mi sembra di confrontarmi continuamente con il mito forse caricaturale (o forse invece no) dell’hyperumano hyperfficiente, incluso il clichè del/la rampante single che fai i meeting di giorno e macina Tinder dates la sera, o  forse  le vite stesse sembrano un cortocircuito Tinder,  a swipare  per il the next  [vale, parimenti, per  i vestiti, i locali, le persone]. Come se tra le pagine Instagram piene di poltroncine di velluto e rifiniture ottone, il tonno tataki e le brioches laminate, l’armocromia,  il microblanding  alle sopracciglia e i manuali sul closet organizing che “mi ha svoltato la vita”, l’ultimo vero tabù sia rimasta l’ammissione di dolore, di difficoltà, di solitudine.


Nel mio vecchio post pensavo che la più grande concessione  che potessi farmi fosse dirmi “sono brava”; ho imparato - sto imparando – a dire anche che sono stanca, che ho paura. Superman is not easy, e parafrasando l’amico suo Spiderman direi che da una grande libertà deriva una grande responsabilità: stare da soli è libertà, la più grande: continuare a  ri-conoscersi, la più grande responsabilità.
In quel RI c’è tutto il continuum aperto dei nostri goffi tentativi empirici: anche io ho i miei taxi nel cuore della notte da case in cui non volevo stare, gli acquisti compulsivi di vestiti sbagliati, i pianti a capodanno, ho preparato la pasta di curcuma per il golden milk la mattina,  bruciato e incenso e palo santo e salvia bianca, mi sono iscritta quasi in contemporanea a Tinder e Bikram yoga (esperienze opposte e complementari di cui vorrei ugualmente poter fare un compiuto report à la DFW, che non so se siano peggio le chat  “ke fai?” alle 07.55 del mattino o  il progressivo  snudamento e sudamento di corpi d’ogni specie e fattezza in uno stanzone d’indistinguibile  umidità e odori  - che ne sanno i cinesi, laggiù  a Wuhan). 


Ma siamo di sangue, come il nostro sangue ci regola il principio dell’osmosi: i misteriosi e a volte caotici flussi che ad un certo punto conducono in un là dove stare bene, l’imprevedibile gioco di prestigio – un anagramma, la sostituzione occulta di una vocale – il caos può portare a casa.


La vita adulta, monolitica, non è compatta a priori.
E’ un esercizio di interità.
La parola esercizio implica questa componente di fatica, di impegno.
Sono io, sono me. È  un esercizio di coerenza.
 Indipendentemente-da-tutto-il-resto o sticazzi, nella sublime valenza romana del termine.
 
Non è facile, non è scontato riuscirci-sempre-cosi-bene.


E’ un esercizio di cura, come apparecchiare la tavola per uno, come tostare piano il pane la mattina, come conoscere le stagioni dei fiori.
E’ un esercizio di chirurgia, accadono incontri che le trovano, le cicatrici.
E’ un esercizio di compattezza, nel goretex sotto la pioggia, o in un abito di seta in coda all’open bar.
(O addormentarti dall’altro lato del letto, o  lavare in denti in un lavandino che non è il tuo)
E’ un esercizio di resistenza, può piovere – anche alle piccole Cicladi, d’agosto.
Puoi correre al buio. Invecchi, ogni mattina ti si stropiccia un pochino di più la faccia.
Puoi svegliarti prima di tutti, senza svegliare nessuno, la ragazza mezza camicia da notte mezza giacca a vento su e giù per i sentieri, a seguire gli asinelli, a spiare le case dietro i muretti – scendere al mare.
 
Sessantadue passi, più o meno.
Ci sono un pescatore, due bambini con un secchiello di plastica rossa.

“Se vuoi puoi raccogliere gli stessi vuoti con me


domenica 25 aprile 2021

La fine dei vandalismi




E quando è finita la zona rossa ho messo lo smalto – mani piedi, color fuoco fuochissimo. Ho comprato dei sandali dorati, tacco 12. Li definirei, d’istinto, sciocchini.

Dopo – boh? Arrotondiamo a sei mesi, - di quasi interrotto lockdown questo ora ci accontentiamo  di avere alla nostra personale fine dei vandalismi? Quasi ci fosse stato un progressivo restringimento, la pressurizzazione di tutto ciò che chiamavamo orizzonte, e desiderio (l’oceano o il mare, un vulcano, o un’isola vulcanica, o  anche un’isola e basta, appena un po’ fuori stagione o un bivacco di latta in cima alla montagna, o un biglietto intercontinentale per lavarsi i capelli nel lavandino durante lo scalo, e il “tanto viaggio solo con il bagaglio a mano” – che è poi il North Face scientificamente riempito ai canonici 9,5kg, o, anche meno, dai – la luce di Roma e i baci da inventare ai Fori  o meno, meno  ancora, un qualsiasi tavolino traballante in una qualsiasi giornata all’aperto dove ingozzarsi di pane e burro e acciughe e se viene sete pazienza, ci si beve su).

A  volte mi chiedo se non stiamo scendendo ad un minimo denominatore multiplo, in un substrato di infinitesimali aggrappi. Come dopo l’estinzione dei dinosauri, sopravvivono i minima, gli infimi gradi delle manifestazioni di esistenza: una doppia passata di smalto, e un paio di sandali dorati, altissimi,  mezzi scemi – per camminarci dove, poi, non si sa.

Sono stata, quello stesso giorno, a una mostra, in una delle gallerie appena riaperte: Ritorno al barocco: Fontana, Leoncillo, Melotti. Una manciata di opere che indagano il legame tra questi tre artisti del XX secolo e la cultura barocca del Seicento e Settecento, concentrandosi su una selezione di ceramiche -  l’arte come rabdomante della vita che non ne concilia ma anzi intercetta e anticipa le tensioni: il barocco, periodo d’impulsi e sconquassi e controluce violente, e l’argilla che ne è l’espressione. Mi ha colpito molto questa scelta: l’argilla è un materiale difficile, malleabile ma ombroso, quasi grezzo. Al contrario il vetro è per definizione trasparente, non ha misteri,  è pura fragilità da proteggere perché una volta infranto non si può più ricomporre. L’argilla è opaca; è al tempo stesso creazione e memento mori: di terra siamo fatti, alla terra torneremo – ma, anche, è terra che si può riparare, trasfigurare con l’oro: è il kitsugi giapponese, è Leoncillo che nel 1942 creò i suoi trofei e trasfigurò i soldati in masse vivide di colori mischiati con l’oro sottraendoli alla condizione umana.

RITORNO AL BAROCCO Fontana Leoncillo Melotti, Installation view at ML FINE ART Matteo Lampertico I Ph. Daniele De Lonti

RITORNO AL BAROCCO Fontana Leoncillo Melotti, I ML FINE ART  I Ph. Daniele De Lonti

La perfezione del cristallo, la porosità dell’argilla: nel 1968, l’anno degli hippies e del maggio francese, nel mondo letterario accadono due fatti, apparentemente lontani e scollegati tra loro: primo, il giapponese Kawabata Yasunari vince il premio Nobel. E’ una vittoria che è al tempo stesso il riconoscimento di un talento e la fine dell’embargo culturale postbellico. Le immagini della cerimonia restituiscono un ritratto dello scrittore ieratico e fuori dal tempo, vestito con un kimono tradizionale che «lo fa apparire come un maestro di calligrafia». Nel suo discorso, La bellezza del Giappone ed io, cesella con parole dense ed evocative come ideogrammi l’estetica del Paese: i ciliegi, la  luna, la cerimonia del tè.

Kawabata tornerà sul tema della bellezza alcuni mesi più tardi.  In occasione di due conferenze che è invitato a tenere a Honolulu scrive il saggio “Esistenza e scoperta della bellezza”: una bellezza pura come vetro, anzi è proprio – materialmente – il vetro, trasparente e inondato di luce della pila di bicchieri nella sala colazioni del Kahala Hilton Hotel

“Ho ammirato non so quante volte la bellezza dei bicchieri di vetro che brillano al sole, disposti su un lungo tavolo in un angolo. Non ho mai visto, in nessun altro luogo bicchieri che brillassero con lo stesso splendore. […] Ma avvertivo il desiderio di fermare in parole, qui e adesso, la mia scoperta e la mia percezione della bellezza  dei bicchieri di vetro che scintilllano alla luce del mattino”

Kawabata ricorda a noi, uomini di terra, l’effimera, evanescente, ineffabile bellezza del vetro  - è Ichigo Ichie – cioè un incontro unico e irripetibile: un continuo esercizio a sapersi incantare - laddove dove gli altri vedono solo dei bicchieri impilati, trovare la bellezza – inventare qualcosa che prima non c’era e ora c’è.


Ma il 1968 è anche l’anno in cui Italo Calvino fa uscire per il Club degli Editori una nuova edizione dei suoi racconti cosmicomici, La Memoria del mondo e altre Cosmicomiche.  È uno dei suoi testi meno conosciuti seppur lui nella Premessa paradossalmente dichiari: «è questo il vero libro che avevo voluto scrivere fin dal principio». E solo in questa raccolta, programmaticamente pensata (nel titolo e nella struttura) per conservare la memoria del proprio universo, c’è l’emblema forse più compiuto di tutta l’architettura cosmicomica.

I racconti (alcuni inediti, altri ripresi dalle edizioni precedenti) sono organizzati in una complessa costruzione tetralogica di cinque sezioni da quattro testi ciascuna:  e al numero 16, cioè 4x4, quindi il cuore della sua costruzione, inserisce un racconto che è presente solo in questo volume: Le Conchiglie  e il tempo.

L’edizione precedente (1965) delle Cosmicomiche si era chiusa con il capitolo La Spirale, di cui questo testo avrebbe dovuto essere la continuazione inedita. La spirale era l’esito di una metamorfosi: l’informe mollusco che sulla spinta della pulsione amorosa iniziava a darsi la forma di una spirale, senza un dove né un quando: inglobava il tutto di un mondo prigioniero del piano sincronico dell’eterno presente.

Io sono stato […] io misero mollusco condannato al mio vivere momento per momento, io prigioniero perpetuo d’un interminabile presente. […] Perché, intendetemi, io di come potesse essere il tempo non avevo idea e nemmeno avevo idea che ci potesse mai essere, qualcosa come il tempo. I giorni e le notti mi battevano addosso come le onde, interscambiabili, uguali oppure segnati da differenze casuali, un su e giù in cui era impossibile stabilire un senso e una norma (MM 1241).

Ora invece  Calvino introduce due elementi: il tempo e la materia. Frammentando i singoli, infinitesimali,  istanti che ne formano l’esistenza, si ottiene la conchiglia: che è la  spirale, ma temporalizzata e materializzata.   Darsi una materia per costruire la  conchiglia diventa l’atto difensivo contro l’azione corrosiva di tutti i presenti: progettare il proprio guscio è la massima espressione dell’affermazione del sé nello spazio e del sé nel fluire del tempo: 

Però nel costruirmi la conchiglia, l’intenzione che ci ho messo era già in qualche modo connessa al tempo, un’intenzione di separare il mio presente dalla soluzione corrosiva di tutti i presenti, tenerlo fuori, metterlo da parte […] Bisogna che cominciassi col fissare dei segni nella continuità immisurabile: stabilire una serie d’intervalli, cioè di numeri. La materia calcarea che secernevo facendola girare a spirale su se stessa era appunto qualcosa che proseguiva ininterrotta, ma intanto, a ogni giro di spirale, separava il bordo d’un giro dal bordo d’un altro giro, per cui, volendo contare qualcosa, potevo cominciare a contare questi giri. Ciò che volevo fabbricarmi, insomma, era un tempo solamente mio, regolato esclusivamente da me, chiuso: un orologio che non aveva da render conto a nessuno di quel che segnava. Avrei voluto fabbricare un tempo-conchiglia lunghissimo, ininterrotto, continuare la mia spirale senza smettere mai (MM 1243-1243).

La conchiglia diventa fossile: traccia materica dell’ostinata fatica dei molluschi di durare, di regalare il loro regno – il tempo – agli umani, «la più volubile razza d’abitanti del provvisorio».

Adesso è chiaro che la fabbricazione del tempo consisteva proprio nella sconfitta dei nostri sforzi di fabbricarlo; solo che non avevamo lavorato per noi, ma per voialtri. Qualcuno doveva pur cominciare: non tanto a fare quanto a farsi, a farsi cosa, a farsi in ciò che faceva, a far sì che tutte le cose lasciate, le cose seppellite fossero segni d’altro […]. A partire dalle nostre spirali interrotte avete messo insieme una spirale continua che chiamate storia. […] La vostra storia è il contrario della nostra, il contrario della storia di ciò che muovendosi non è arrivato, di ciò che per durare si è perso (MM 1246).

Rispetto all’amico Saul Steinberg, che in quegli stessi anni disegnava spirali create a partire dalla mano dell’uomo, Calvino compie invece una sorta di rivoluzione copernicana: l’uomo non è il creatore, centro e origine della spirale, ne è  ma è esso stesso parte.

La conchiglia cosmicomica ingloba la totalità della storia, la rende visibile e la ordina in una struttura infinitamente scomponibile e replicabile: l’esito della ricerca costruttiva di Calvino è molto simile al progetto dell’ideale “Mundaneum” («museo del mondo a crescita illimitata») spiraliforme che elaborò Le Corbusier.

 

Una sola concezione architettonica fondamentale può costituire una forma organica. Questa forma è una triplice navata che si sviluppa lungo una spirale. All’inizio della spirale, in alto, i tempi preistorici e la rappresentazione succinta – tra l’altro sorprendente – che di questi abbiamo.  E scendendo la spirale, una dopo l’altra, tutte le civiltà mondiali. La storia e l’archeologia accumulano sempre più i documenti, noi sappiamo sempre più come l’uomo s’è mantenuto attraverso le diverse forme di organizzazione e della cultura. Il diorama diventa sempre più vasto e preciso. La spirale ingrandisce la sua traiettoria, lo spazio aumenta […]. La carta del mondo si ingrandisce, si modifica, palpita come una fioritura presa al rallentatore del cinema […]. A ogni tornante, un orizzonte nuovo; a ogni spirale, una vista più libera. Vede i quadri della gestazione del mondo; le nebulose che diventano soli; il meccanismo dei pianeti, la separazione dell’aria, dell’acqua, della terra. Poi le prime vegetazioni, poi i primi animali, le bestie gigantesche della preistoria. Ecco uno scheletro di Plesiosauro! Ecco il primo uomo! Ecco il cranio dell’uomo evoluto con la sua fronte come una cupola. Ecco delle tombe. Strutture di pietra in forma architettonica. L’uomo è architetto. La sua funzione è di creare ordine (corsivi miei).

 

 (Le Corbusier,  Projet de Musée à croissance illimitée, 1934)

Anche per Calvino, la spirale diventa «un museo dell’umano», che ne racchiude tutta la storia a partire dalle origini:


qualcuno doveva pur cominciare, non tanto a fare quanto a farsi, a farsi cosa, a farsi in ciò che faceva, a far sì che tutte le cose lasciate, le cose seppellite, fossero segni d’altro, l’impronta delle spine del pesce nell’argilla, le foreste carbonizzate e petrolifere, la zampata del dinosauro del Texas nel fango del Cretaceo, la carcassa del mammuth ritrovato nella tundra […], la Venere di Willendorf, le rovine d’Ur, i rotoli degli Esseni, la punta di lancia longobarda spuntatasi a Torcello, il tempio dei Templari, il tesoro degli Incasa, il Palazzo d’Inverno e l’Istituto Smollnji, il cimitero delle automobili… A partire dalle nostre spirali interrotte avete messo insieme una spirale continua che chiamate storia (MM 1246).

La conchiglia è la spirale diventata organicità, diventata terra – anzi, dalla terra creata e che alla terrà tornerà. Ma il guscio della conchiglia protegge il tutto: affinchè quello che è stato creato fin qui, tutta la storia cosmica inglobata nelle volute di sottile madreperla sia salvaguardata e diventi l’eredità da trasmettere alle generazioni future di «coloro che la sapranno leggere». 

Nonostante i reiterati fallimenti sempre vivo è il desiderio di trovare una forma per il proprio divenire, nel tragico e instabile fluire degli eventi. In una delle sue ultime interviste Calvino afferma:

 

c’è ovviamente un modo migliore per superare la tragicità: dare una forma al divenire. Ma per far questo bisogna credere alla possibilità di dare una forma alla propria vita, creando una storia con un senso compiuto (corsivi miei).

 

Ed ecco, allora, la terra e il vetro, per costruire, per custodire.

Se è vero che siamo questa terra, siamo parte integrante di questo continuum metamorfico di frammenti e residui di secrezioni fossili. Inglobiamo nelle nostre volute la storia, il capriccio di uno smalto rosso un pomeriggio di primavera, lo stupore per un riflesso, l’attrazione per lo scintillio dell’oro (in una statua, in un sandalo, nel fondo di un’iride screziata di fronte a noi).

E’ nella terra che impastiamo le nostre tensioni e inquietudini, la nostra storia di umanità (e poi, come soldati,  come eroi feriti chiediamo all’arte e alla bellezza – nostre preziose polverine d’oro – il compito di trasfigurarci – levitarci- oltre: Dare una forma, proteggerla,  e poi tramandarla - storie come quotidiane pennellate d’oro a è ciò che resta da salvare, per salvarsi.

 

 

 

Le Corbusier,  Projet de Musée à croissance illimitée, 1934

 

 

Figura 3. Saul STEINBERG, One end of a series of spirals is being completed by a man with a pen; he sees a mental image of himself completing the other end of the spirals (disegno), “The New Yorker” 20, February 1965.

 

GLI ESSENZIALI:

Le opere di Italo Calvino sono com’è noto raccolte nei «Meridiani» Mondadori in varie serie. Tutte le edizioni delle Cosmicomiche sono in: 

  • Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, vol. II (siglato RII).

Le Corbusier, “Mundaneum”, L’Architecture vivante, VII, n. 20, primavera-estate 1929, pp. 21-32 ( Traduzione di L. Basso Peressut) ora in L. Basso Peressut, Il museo moderno. Architettura e museografia da Perret a Kahn, San Giuliano Milanese, Edizioni Lybra Immagine, 2005, pp. 102-104.

K. Yasunari, Esistenza e Scoperta della bellezza in K. Yasunari, La danzatrice di Izu, a cura di Giorgio Amitrano. Traduzione di Gala Maria Follaco e Giorgio Amitrano, Piccola Biblioteca Adelphi, 2017.

Per la mostra Ritorno al barocco: Fontana, Leoncillo, Melotti: 

https://www.mlfineart.com/exhibitions/30-ritorno-al-barocco-fontana-leoncillo-melotti/

 


domenica 19 gennaio 2020

Con il tuo ordine discreto - Dancing After Hours


Stamattina ho preso una batosta, dritta in faccia. Non mi accadeva da tantissimo e così forte, non mi ricordavo più che effetto facesse.
La delusione è un accadimento tanto umano, tanto insitamente scontato che non si è mai pronti, in realtà. Non lo ero pronta, oggi: dunque incasso.

 L’ordine non è uno stato immobile, è una tensione perenne, una conquista, per noi umani di sangue e terra. Ho nuotato 1,5 km in piscina (la mia prima vasca da 50m da quando vivo a Milano), ho comprato la Domenica  del Corriere e l'inserto del Sole 24 Ore, finito un altro libro di Dubus, bevuto il matcha con il latte di mandorle, pulito i porcini freschi per farmi un’omelette a pranzo -  ripristinare l’ordine discreto, come chi non si stacca dalla porta di casa.
Questa sera ho evaso una lista di mail con la  bandierina rossa, nel mezzo c'era un inoltro che non mi aspettavo “Giulia, ci pensi tu?” - facciamo giri immensi e poi, mentre appongo la mia altisonante  firma estesa, mi ritorna una domanda lontana se davvero volessi arrivare qui, a essere una che usa il termine evadere riferito alle mail, riferito alla domenica sera, e non dovrei essere a scrivere in qualche isola o forse in una biblioteca straniera a postillare edizioni, disvelare i giochi di rimandi e incastri tra le parole e i racconti.
“Per stare fermi non bisogna mai smettere di remare” - l’ordine  elastico incassa i colpi con grazia sottile, il piede vacilla appena, scivola, si trascina dietro sul pavimento, si riassetta:  quinta posizione del  balletto, plié. Dancing After Hours .

martedì 31 dicembre 2019

Ho visto gli ibis rossi danzare (2019)

Del 2019 ricorderò quel giorno di agosto, quando nel delta del Parnaiba ho visto gli ibis rossi volare.
Ci eravamo lasciati alle spalle  il deserto e lagune dei  Lencois Maranhenses, per navigare lungo un fiume fangoso.

 Il mio anno come  quella barca, a motore spento in un delta torbido.

La promessa, alla fine, era di arrivare all'oceano ma a metà – quando sia la terra dietro sia il mare davanti non li vedevi più, li ricordavi – li intuivi, ecco, in quel momento la nostra barca si è fermata.

Del 2018 scrivevo che ci vuole coraggio a cambiare, ad andare avanti; rimango grata della libertà che mi è stata data di scegliere se fermarmi, di nessun braccio che mi abbia mai tirato indietro. “Resta qui” quando accadrà chissà se ne sarò di nuovo capace  di restare, io con le mie difese gli occhi bassi le risposte tranchant i silenzi le distanze da ribadire le sveglie per allenarmi alle 0600.

Galleggiare.
Scendeva il tramonto sul fiume. Attendevamo qualcosa che sarebbe potuto succedere oppure no, per  una bava di vento di troppo, i rumori dei turisti d’agosto: gli ibis rossi, loro stessi esistenza eccezionale che può succedere oppure no, in un’intricatissima biologia, l’equilibrio sottile di un ecosistema di plancton e molluschi –che, ingeriti, lasciano al loro piumaggio il colore scarlatto.
Passa il primo, un volo un po’ a caso, sembra la classica trappola per turisti. Passano delle sparute coppie,  attraversano il fiume e si nascondono tra gli alberi. Tutto è scetticismo prima, e umidità dell’acqua che penetra dentro le ossa, mentre ci stringevamo nelle giacche a vento leggere. Poi il cielo diventa una danza: rosa del tramonto, rosso delle piume.

Dunque il mio anno come  quella barca, a motore spento in un delta torbido. E fa freddo, e ho la sabbia del deserto nei capelli  annodati, il desiderio frettoloso di raggiungere l’oceano. 
Ma qualcosa si interrompe e l'interruzione è il planare leggiadro degli ibis: mi sono incantata, anzi  ho lasciato che incantasse me,  che mi chiedo se sono capace di fermarmi.  Riconoscersi nella bellezza, saperla – ancora – riconoscere, in un volo di uccelli, in un alba silenziosa, sulla pietra lavica di qualche caletta con l'acqua profonda, nella lama di bianco della neve in cima a una montagna,  nella finestra spalancata dell’ultimo piano di Palazzo Braschi, in un Etat Libre D’Orange con la zucca e lo zenzero che, inspiegabilmente, ha il profumo di un tramonto a Pian della Ghirlanda.
Alzarsi sulle punte dei piedi, i muscoli tesi nello sforzo di avvicinarsi, di perdersi meglio. Strizzare gli occhi per vedere.  Con il mio obiettivo sbagliato che non mi verranno mai foto decenti, con le lenti piene di salsedine. Con le nostre mani di carta per avvolgere altre mani normali, l’esercizio difficile delle meraviglie.