«Ma ve ne volete o non ne volete uscire dalla merda?» Faceva Milia a quelle madri lagnose.«Si ce ne vogliamo uscire. Ma i nostri figli che devono fare?»«Devono sognare. Devono semplicemente sognare» disse Milia«Sognare?»Dicevano le madri sconfortate ed incerte.«Semplicemente questo: sognare»[Mimmo Rando, Omero al faro]
Viviamo in un mondo che ci porta a misurarci continuamente con
l’inferno.
L’inferno incalza noi, generazione di semidei. O generazione
Erasmus, dicono.
Cresciuti dopo la strage di
Bologna, ci stavamo affacciando all’adolescenza l’11 settembre, quando su
Italia 1 abbiamo visto due aerei infilarsi nelle Torri Gemelle e non capivamo
se fosse un telefilm o cosa.Ci hanno insegnato che il mondo è
un posto bello, mai ci ha sfiorato prima d’ora la sensazione che un treno, una
stazione, un aeroporto potessero essere luoghi pericolosi: al massimo ci siamo
abituati a togliere i liquidi e le forbici dal bagaglio a mano.
La guerra per
noi è sempre stata qualcosa di lontano, un eco d’Africa o di Terzo mondo, circoscritto,
comunque remoto nel tempo e nello spazio. C’erano i pacchi di pasta e tonno
per i bambini bosniaci, quando eravamo piccini. Poco più di un decennio dopo
andiamo in vacanza in Croazia e quei bambini di allora possono essere i nostri
compagni di nottata a Hvar o Belgrado, assuefatti come siamo al lieto fine. Siamo la generazione delle borse di studio,
della ricerca oltreoceano, delle vacanze in Inghilterra d’estate. Ci hanno
insegnato a temere il colesterolo da full
English breakfast, il furto con destrezza a Barcellona, il cagotto per il
ghiaccio nei cocktail di Bali o Bangkok.
Finchè una mattina di luglio ci
scopriamo vulnerabili, mortali. C’è l’inferno ed è un camion imbizzarrito sulla
spiaggia della Promenade des Anglais,
là dove qualche estate addietro bevevamo birra belga, sette donne di vent’anni
con una cagnolina di nome Viola – e, ironia della sorte, ancora non lo sapevamo
che quella sarebbe stata l’ultima estate insieme. L’inferno sono i carri armati
e gli spari in quella stessa Piazza Taksim in cui meno di dieci mesi fa ho
aspettato la mezzanotte del mio compleanno, ebbra di raki e di felicità.
Istintivamente, penso alla sfida
finale delle Città Invisibili: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in
mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Mi
chiedo cosa significhi questo dargli
spazio. Da una parte, come molti hanno detto o scritto in queste giornate,
significa probabilmente non arrendersi alla paura, non smettere di viaggiare,
muoversi, sentirsi il mondo sulla pelle. Dall’altra, l’azione più antetica:
imparare a fermarci, regredire al nostro essere bambini, e sognatori.
Sabato sera a Camogli, in un
tramonto perfetto da cartolina di luglio, un gruppo di bambini è seduto sulla
terrazza davanti al mare. In silenzio, ma con occhi pieni di stupore guardano lo
spettacolo di due giocolieri di strada. Dietro il vociare degli adulti, le
chiassose hit dell’estate, la
bramosia di postare, più che di guardare, il mare.
Chissà se quei bimbi sanno
dei passeggini schiantati sull’asfalto di Nizza, delle bombe di Stato sul
parlamento di Ankara. Forse, ha ragione la Milia, che dalla merda ci salveranno
i sogni dei bambini. Sogni istintivi di pace e di pulizia. A noi grandi è stato
insegnato che sognare è una fuga, l’irrealizzabile per antonomasia.
L’inferno non è quando siamo noi con i
nostri sogni, e ne facciamo i demiurghi del mondo che vogliamo, che possiamo.